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Thursday, November 22, 2007

Il profeta della danza universale di Cristina Misischia

Il profeta della danza universale di Cristina Misischia


ROMA - "Detesto il balletto, gli orrendi tutù e la volgarità dei fondali di cartapesta. Non sono un coreografo, ma un uomo di spettacolo 'totale': amo scegliere i gesti e le parole, curare le scene, le musiche, gli effetti speciali e ogni dettaglio, attingendo a qualsiasi forma d'arte". Si presentava così Maurice Bejart, colui che di fatto é stato il coreografo più conosciuto e apprezzato d'Europa, l'artista che dopo Martha Graham e per primo nel Vecchio Continente è riuscito a stabilire nella danza un flusso ampio e continuo di comunicazione tra il quotidiano e l'immaginario, fra istanze popolari, sociali e politiche e un teatro intellettuale. Uomo delle contraddizioni eclatanti, dei grandi gesti e delle repentine inversioni di rotta, dopo 30 anni di successi aveva deciso nel giugno '92 di chiudere lo sfolgorante Ballet du XX Siecle ('Mudrà) del quale era stato fondatore e animatore al Teatre Royale de la Monnaie di Bruxelles, per fondare a 66 anni una nuova compagnia, il 'Rudra' Bejart Ballet di Losanna con 25 solisti fedelissimi, creando tutte coreografie ispirate al mondo cinematografico (Chaplin, Godard, Pasolini, Lang). Per lui che era marsigliese, Parigi che pure adorava (e dove aveva mosso i primi passi formando la compagnia dei 'Ballets de l'etoilé e dove sempre tornò per lavorare all'Opera) era troppo ministeriale e politicizzata.

"La mia vita - diceva - somiglia a quella di un nomade del deserto: sempre pronto a ripartire". Tratti aguzzi un po' da corsaro, un po' da diabolico guru, capelli corvini e occhi azzurrissimi, Bejart - che in realtà si chiamava Berger, il nome d'arte lo scelse in omaggio alla famiglia che lo adottò - era nato nel 1927 da un contadino e da una donna bella e attivissima. Cominciò con un teatro povero, ringhioso, sperimentale, contro la tradizione, il metodo di Serge Lifar (per anni padrone dell'Opera di Parigi) e le favole romantiche. E dopo aver spicconato con implacabile intento rivoluzionario la visione di corte 800esca del balletto e quella alto-borghese dei Diaghilev e dei Balanchine, diventò il profeta e il testimone dei fermenti in atto tra gli anni Sessanta e Settanta, scegliendo sempre, come diceva,"ciò che sta per nascere e che ha dentro di sé l'avvenire". Nel '59 mando' in scena una sua versione della "Sagra della primavera" che suscitò scandalo per la libertà e la crudezza del rito erotico collettivo che vi si compiva. E dopo 'L'uccello di fuocò in chiave guevarista, con 'Bolero', 'Cygnes', 'Bhakti', 'Les Vainqueurs' Bejart focalizzò l'attenzione sull'Oriente induista e buddista, poco prima che ci fosse il boom degli hyppie e dei figli dei fiori. Poi con 'Romeo e Giulietta' (1966) si fece interprete dei problemi dei giovani, inneggiando alla rivoluzione sessuale e alla pace.

Temi tutti aderenti all' attualità, come quelli cui si era dedicato negli ultimi tempi: l'antirazzismo, il rifiuto dell'industrializzazione, il problema del terzo mondo e della distruzione della terra (affrontato in '1789', per il bicentenario della rivoluzione francese). E se è vero che le sue innumerevoli creazioni - fino alla sua ultima dell'estate '94 ''King Lear- Prospero" - sono state spesso sovraccariche di simbologie e mitologie sofisticate e intricatissime, emerge sempre un'energia vitale contagiosa, espressa con un linguaggio a metà strada tra l'aspirazione al teatro totale di Wagner e di Artaud e l'astrazione più ascetica, tra grandi esplosioni barocche e la ricerca formale pura, tra sogno, utopia e ironia. Esteta esigente e severo, fu un padre-padrone per i suoi danzatori ("hanno bisogno di un padre come i figli: per l'amore e per la lotta"). Lo stile, diceva, "é metà intuito e metà attenzione e interiorità, impostati su una disciplina ferrea, sola base per raggiungere leggerezza e naturalezza". La sua idea della danza non era certo una questione di passi o 'tour en l'air', ma di ordine mentale e di cultura. Il suo danzatore ideale era un misto tra un pugile e un monaco, tra uno sportivo e un mistico, tra forza fisica concentrata e grazia estenuata, insomma i due sessi insieme. La sua ballerina preferita era Sylvie Guillem, (il "solo mostro sacro di oggi dalla capacità drammatica straordinaria"): per lei creò indimenticabili 'pas de deux' con Laurent Hilaire (splendido 'Episodes'). Era convinto che "ballare è una virtù del cervello, prima ancora che delle gambe".

Nelle civiltà e negli autori universali cercò sempre "ritmi, emozioni e gesti puri": da Shakespeare a Goethe, dal Petrarca a Moliere, da Baudelaire a Malraux e a Nietzsche, ma anche ispirandosi a Wagner, suo vate, a Stravinskij, Malher, Ravel, Schoenberg, Boulez che era suo intimo amico, diventando con disinvoltura giapponese con "Kabuki", iraniano con "Golestan", greco con "Thalassa", ebreo con "Dibbouk". Negli ultimi anni Bejart aveva abbandonato i bei corpi angelicati che avevano affollato le sue coreografie per 30 anni, lasciando i costumi firmati e i grandi cori danzanti che era riuscito a portare per primo persino negli stadi. E si era messo a fare ricerca con un pugno di danzatori.Nel marzo del '95 e' stato il primo ballerino e coreografo ammesso tra gli 'immortali' Accademici di Francia, dopo aver ricevuto anche il Premio Imperiale giapponese per la categoria teatro-film, già attribuiti a Bergman e a Fellini.

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